"E' Stata la Mano di Dio"
"E' stata la mano di Dio" è l'ultimo film di Paolo Sorrentino che nell'ultimo mese ha fatto molto parlare di sè riscuotendo un enorme successo.Il film ripercorre le vicende autobiografiche del regista stesso che perse i genitori in un tragico incidente domestico in età adolescenziale. Un grande regista ci offre un ritratto della sua adolescenza o. per essere più precisi, il ritratto che il suo Sè adulto fa della propria adolescenza.
Da un punto di vista psicodinamico l'adolescenza è un periodo della vita che ,al pari dell'infanzia, anche se viene superata da un punto di vista cronologico continua a rimanere una traccia attiva che dona linfa vitale all'inconscio delle persone. Mai come prima nei mesi di lockdown, forse, a molti adulti sarà capitato che alcuni ricordi adolescenziali riaffiorassero chiedendo di essere rimaneggiati.
Probabilmente non è un caso che questo film ,che ha come porotagonista l'adolescenza di un regista, esca subito dopo il lockdown e ,in estrema sintesi, è possibile che contenga anche un profondo inno al cinema rimasto bloccato durante i mesi dello scoppio della pandemia.
Il cinema è daltronde il mezzo attraverso il quale Fabietto, la trasposizione cinematografica del regista adolescente, prova ad addomesticare l'indicibile dolore del trauma per la morte improvvisa dei genitori.
Fabietto, nel film, vuole dedicarsi al cinema per il fatto che la realtà gli appare troppo brutta, gli appare invivibile, scontata, già scritta.
A tal proposito sembra fare eco Freud a questa spinta profonda del giovane artista quando parla dell' uso fa l'artista dell'acquisizione del principio di realtà
Sempre Freud ha inteso il processo del lutto come una difficile e tremenda lotta in cui il soggetto è chiamato a fare un doloroso esame di realtà: "l'oggetto amato adesso non c'è più". (Freud 1915)
Ogni bambino nella sua crescita scopre che il tempo non si può fermare, che non potrà stare per sempre con I genitori. Tuttavia il tempo, la gradualità con cui avviene la crescita del bambino e la vecchiaia dei propri genitori consentono un lavoro di disidentificazione e de-idealizzazione delle figure genitoriali.
Ma cosa succede se tutto avviene di colpo? Se si passa da essere figlio e essere genitore di se stessi in una sola notte?
Succede che si spalancano le porte del trauma. Per il giovane Fabietto la vita reale perde di senso, il mondo appare svuotato e il tempo è visto come un'implacabile linea retta: nascere, crescere, sposarsi, morire.
Dai primi minuti del film, mi riaffiorano alla mente le parole di Pietro Montani (celebre docente di filosofia estetica alla Sapienza): un grande film ha sempre un grande inizio (e un gran finale).
Già dall'incipit il registra dipinge il trauma. Si apre con una splendida inquadratura del mare, una visione che trasmette calma, pace, unità, perfezione. Subito dopo , senza alcun preavvisio, la scena successiva arriva come uno scoppio e ci immerge all'interno del traffico campano. Urla, confusione, festa, disordine: il contrasto fra le due scene mi fa sobbalzare sul mio sedile.
Il film stesso si può dividere in due parti. In una prima parte viene mostrata la vita del giovane Fabietto e della sua famiglia in una Napoli dei primi anni novanta: la rappresentazione è pittoresca vivace e anche i conflitti familiari sembrano potersi diluire e risolvere all'interno di "una commedia all'italiana".
La seconda è come una violenta sferzata: Fabietto perde i genitori drammaticamente, inaspettatamente e ad una età in cui non si preparati. Il seguito della storia ci mostra una vita che si riorganizza attorno ad un trauma.
Mentre lo vedo in un cinema di Roma la spaccatura fra i due momenti del film è evidente anche nel pubblico in sala: nella prima parte c'è un clima festoso; sento gente ridere, ricordare, respirare dei momenti di "conterraneità" con dei commenti appassionati. Nella seconda parte cala un'assordante silenzio, l'atmosfera diventa rarefatta. Il cinema diventa improvvisamente gelido ma concentratissimo.
Non è forse così che alcuni pazienti ci descrivono un trauma? Un prima e un dopo, un prima irrecuperabile e un dopo che non si come padroneggiare.
Forse anche il me stesso spettatore del film che coglie le reazioni dei suoi compagni spettatori non stava sperimentando uno degli effetti del trauma? Davanti a un truma non fatichiamo a riconoscerlo all'esterno e dall'esterno, ma non riusciamo senza qualcun altro a coglierne a percepirne le tracce che lascia dentro di noi, non capiamo fino a che punto ci tocchi, ci avvolga, ci compenetri.
Il Fabietto che perde i genitori cerca un senso da dare alla propria vita, cerca amici, cerca l'amore, cerca maestri.
Il regista ci mostra con chiarezza come l'avvento del trauma segni l'oltrappassamento di una porta che gli rende complicatissima una via di accesso "normale", "tradizionale" a ciascuna di queste cose.
Iluminante fra le tante scene mi appare l'incontro del giovane Fabietto col proprio mentore: il regista Capuano.
Capuano appare sulla scena come un regista carismatico: colui che sa ma che sa anche di non sapere.
Il giovane Fabietto lo bracca in cerca di risposte: vorrebbe capire come si fa a fare cinema.
Il mentore Capuano lo scruta e sembra avere inquadrato il ragazzo, mi sembra quasi che si dica: è un ragazzo inibito gli serve uno scrollone. Capuano incalza ripetutamente Fabietto: perchè trasferirsi a Roma se Napoli è una città con così tante storie da raccontare? Scappare, andare via che senso ha se non si ha qualcosa da dire? E lui, Fabietto c'è l'ha qualcosa da dire?
La scena successiva è un esplosione del ragazzo che con le parole "non me li hanno fatti vedere" rievoca il trauma. Il regista mi appare preso di sorpresa, come di qualcuno che alla reazione del regazzo non trova egli stesso le parole e forse non riesce a reggere il peso di un momento così struggente.
Capuano si tuffa a mare e Fabietto parte lo stesso per Roma.
Anche se, dalle note biografiche del regista, sappiamo che in realtà Sorrentino lavorò diversi anni a Napoli con Capuano, da come è orchestrata la scena, a me ha fatto venire in mente un movimento che può accadere nel lavoro di psicoterapia con adolescenti e giovani adulti.
Penso alle volte in cui la nostra mente sembra trovare una teoria, una spiegazione alla narrazione del paziente e poi improvvisamente il transfert esplode: il trauma emerge e ci troviamo lì convocati insieme al dolore del giovane paziente.
Non retrocedere, non perdere la parola, esserci in qualche modo, in qualsiasi modo diventa in certi momenti la sfida più grande nel lavoro terapeutico.
Il viaggio di Fabietto se da un lato può apparire come una fuga dal dolore dall'altro apre le porte del desiderio di trovare la propria strada.
Forse è proprio l'immagine del treno, dalla vita che riparte, del viaggio benedetto del "Munaciello", il grande augurio che ci dona il regista rivolgendosi anche alle generazioni contemporanee che appaiono sempre più chiuse nelle proprie stanze, che non riescono a sognare e non sanno desiderare un futuro.
Il regista in ogni inquadratura del film ci mostra i due volti della vita.
Da un lato il grande trauma è la vita stessa con il suo tratto aperto, ingovernabile, maestoso, imprevedibile specialmente quando non si hanno "garanti", figure che ci proteggono.
Dall'altro la necessità di puntare all'aperto, di sfidarlo, di non temerlo come unica possibilità per poter liberare le proprie risorse creative e vievere una vita che sia veramente la propria.
Dott. Giovanni Fiderio
Bibilografia:
Freud 1915 "Lutto e Melanconia"