Joker

03.11.2019

Joker 2019, Todd Phillips

"Joker" è il film evento degli ultimi mesi al cinema. Un film ispirato, commovente, straziante dalle tinte forti, cupe e con un incedere nella narrazione in maniera lenta, solenne e mai scontata, nonostante sia uno di quei film in cui, per mezzo delle premesse iniziali, non è difficile farsi un idea del finale. Il film narra di come Arthur Fleck giunge a diventare il Joker, uno degli antagonisti principali della saga di Batman, ed il "come" che il film sembra sottolineare è che Arthur vi giunge per errore.

Un errore sembra essere tutta la vita del protagonista, che da vittima si trasforma in carnefice ergendosi a paladino di tutti coloro che da ultimi non saranno mai i primi, contro una società che sembra tracciare una linea di confine, quanto mai attuale, e di stampo ipercapitalista: quella fra vincitori e vinti. La magia del film Joker risiede nel realismo a cui punta nel descrivere la vita del protagonista, pennellandone un quadro dalle tinte caravaggesche in cui spiccano i contrasti fra la luce e le tenebre. Non ci appare, infatti, un Joker nelle vesti di cavaliere dell'apocalisse, di fugura machiavellica e dal multiforme ingegno per il male bensì ci appare un uomo, Arthur, protagonista di un brutto viaggio, di un naufragio, costellato dall'impossibilità di trovare una zattera di salvataggio e alla ricerca di un padre che possa aiutarlo a partire per quel viaggio verso la soggettivazione che non ha potuto intraprendere.

In questo film in particolare e sicuramente molto più che nei suoi predecessori ho visto nel coinvolgimento mediatico , ma anche delle piccole comunità di spettatori, riecheggiare una domanda critica: come si spiega da un punto di vista psicologico?  Questo perché, in questo film, il background di Arthur - Joker non è quello del criminale, perverso assassino ma quello del paziente psichiatrico in cura presso i servizi territoriali. Abbandonati i rassicuranti lidi della criminologia, abbandonata la linea Marginot che dovrebbe, secondo una comune opinione, separare la normalità dalla patologia, il film avanza la sua ipotesi, la sua lettura: quella che la vita, la nostra vita è il risultato di una serie di incontri e quando questi incontri sono sempre brutti incontri il prezzo pagato è incalcolabile.

Arthur si era costruito una sua stabilità, aveva "ricostruito" un ambiente per lui abitabile per mezzo del delirio condiviso con sua madre: quello di essere figlio del signor Wayne, potente industriale presso il quale la madre aveva prestato servizio, venendo, poi, licenziata per non far trapelare lo scandalo. La madre di Arthur sopravvive col figlio nell'"attesa messianica" di un ritorno del prestigioso padre, che li avrebbe salvati entrambi. Le allucinazioni di Arthur ruotano nel film attorno a questo tema: trovare qualcuno che possa sedere al posto vuoto del padre, il buco, il vuoto di Arthur si riempie di padri che possano riconoscerlo.

Se, da un lato, potremmo paragonare la madre di Arthur alla figura mitologica di Penelope, che tesse e detesse la sua tela in attesa del ritorno dello sposo e Arthur a una sorta di Telemaco ipermoderno che invoca il ritorno del padre, dall'altro la psicoanalisi ci indica la siderale distanza clinica che non ne permette il paragone. Penelope e Telemaco sono, infatti, figure che "abitano la mancanza" (Recalcati): sono impegnate in un lavoro attivo di ricostruzione e riparazione che può essere paragonato al lavoro del lutto o al processo di soggettivazione proprio dell'adolescente. La ricerca del padre/marito di Arthur e sua madre è invece un rattoppo, un tentativo estremo di riparare allucinatoriamente la realtà, per potersi difendere dal precipizio della psicosi. Freud ci illumina su alcuni temi di importanza capitale:

"La nevrosi non rinnega la realtà e semplicemente di essa non ne vuole sapere nulla, la psicosi invece rinnega la realtà per rimpiazzarla [...] chiamiamo normale o "sano" un comportamento che unisca determinati tratti di entrambe le reazioni, che al pari della nevrosi non rinneghi la realtà, e che però poi, come la psicosi, cerchi di modificarla" (Freud 1924 pag.41)

La posizione freudiana in questo senso apre a una riflessione vertiginosa: se da una parte nevrosi e psicosi si discostano in maniera talmente radicale da poter operare una diagnosi differenziale, dall'altra senza una compartecipazione di alcuni tratti propri della psicosi la vita si ammala.

Tornando al nostro film, il delirio di Arthur collassa nel momento in cui cercherà di calare nella realtà il suo desiderio di trovare posto come figlio. Lacan ha sottolineato come lo scoppiare di una psicosi si manifesti laddove il Soggetto incontri un padre, inteso come la chiamata della realtà ad operare una presa in carico di se stessi. Arthur, non riuscendo più a far fronte al baratro depressivo, crolla e, per ricompattare il proprio Sè, non trova più altro ingrediente che la rabbia.Il rinnegamento diventa agito: tagliare tutti i legami con la realtà, uccidere i propri sogni per diventare nessuno, per non essere più nessuno ed evitare di soffrire.

Il suo sintomo: la risata che nasconde il pianto, ma esprime anche aggressività, è una magnifica rappresentazione di questi aspetti. La rabbia di Arthur diventa rabbia sociale, rabbia del branco, rabbia che si propaga e diventa una soluzione estrema per i vinti.

Tra i possibili temi meritevoli di approfondimento, questo film ci invita a gettare uno sguardo sul lavoro dei servizi pubblici con le situazioni di grave fragilità sociale e di psicosi cronica. In Italia, la situazione dei servizi di salute mentale in particolare è differente rispetto a quella presentata nel film, tuttavia colpisce molto il problema dei tagli di fondi, che è una questione che potrebbe riguardare anche la nostra sanità pubblica.

In una commovente scena, che innescherà il viaggio verso la rovina di Arthur, la sua terapeuta gli comunicherà che, per motivi di fondi statali, il suo sostegno psicologico sarà sospeso e lo informa su come reperire i farmaci. Il protagonista risponderà in maniera straziante: "Ma io con chi parlerò?"

Questa scena ci mette a confronto con quanto l'offerta di servizi di cura a pazienti cronici possa indurre nella società sentimenti di frustrazione, rifiuto e tendenza a "gettare la spugna". Tali servizi comprendono non solo l'uso della terapia farmacologica, ma una vera e propria rete di intervento che coinvolge numerose figure, con un grande dispiegamento di energie, per poter vedere, su tempi spesso molto lunghi, dei piccoli ma importantissimi cambiamenti. Tagliare i fondi a qualcosa di così importante è come smettere di guardare, ma di guardare cosa?  Una società che tende a mettere da parte queste problematiche, è forse perché non ha il coraggio di riconoscere che la domanda di Joker "ma io con chi parlerò?" accomuna tutti noi in quanto esseri umani, cercatori di senso tramite il potere della parola: nella distruttività di massa, con la quale si conclude il film, si può leggere il grido di disperazione di una società che sente di aver smarrito il "valore magico" della parola.

Giovanni Fiderio

Filomena Forino